GIULIA DOZZA

Intervista di Elisa Zuncheddu

CONOSCIAMO L'ARTISTA

Giulia Dozza, classe 1996, fotografa dal 2019. Eredita la macchina fotografica che utiliza per ogni suo scatto da un caro parente che muore di cancro nel 2017. La sua ricerca si incentra nel nudo a 360 gradi dei soggetti ritratti, spesso all’interno degli ambienti naturali tipici della Sardegna, sua terra di origine. Specializzatasi in postproduzione e compositing, inizia a lavorare per svariate società di postproduzione a Roma per progetti della Rai, Netflix, Skytv e film cinema, ma presto capisce di aver bisogno di più spazio e libertà artistiche per potersi esprimere a pieno. Espone nel 2021 e nel 2022 ad Imagenation Milan. Pubblica il suo primo libro fotografico nel 2023, “Psychosis”, tramite la casa editrice Psicografici Editore. Attualmente lavora per dare voce ad altri artisti attraverso l’organizzazione di mostre collettive.

Come hai iniziato a fotografare e per quale necessità?

Ho iniziato a fotografare nel 2019. Nel 2018 studiavo allo IED e non sopportavo le lezioni per lo più tecniche a cui dovevamo sottoporci. Sapevo di poter esprimere di meglio, ed all’inizio è stata più una sfida con me stessa. Ho lasciato lo IED per poter trovare me stessa tramite il linguaggio visivo. Ho ereditato la mia macchina fotografica nel 2017 ed ho impiegato due anni per “sbloccarmi” e decidere di utilizzarla. Da lì non mi sono più voluta fermare.

Hai iniziato quasi da subito a sperimentare con il nudo. Che necessità hai avuto?

Mi sono ispirata alla formazione di storia dell’arte classica che ho avuto per anni: il nudo, sia maschile che femminile, riesce a rappresentare la bellezza umana in tutte le sue qualità, come dicevano gli antichi greci  “kalòs kai agathòs” (ciò che è bello è anche buono). Ma il bello che ho voluto rappresentare è sempre stato una nudità disturbata, imperfetta, in tensione. Un’intimità scomoda. Ho sempre trovato una forte fascinazione in questo concetto.

Il tuo primo libro fotografico si intitola “Psychosis” (psicosi). L’arte e la salute mentale, per te, hanno un collegamento?

Molti artisti di fama storica soffrivano di disturbi mentali, tra i più famosi possiamo citare Vincent Van Gogh, bipolare e borderline, oppure il notissimo Caravaggio, borderline e con accessi incontrollabili di ira. L’arte è sempre stata un metodo alternativo di esprimersi. Per me l’arte è un metodo di espressione e di comunicazione non comparabile per le persone che soffrono di malattie mentali o di disturbi dell’adattamento, laddove la comunicazione verbale non trova alcun riscontro positivo. A volte diventa l’unica forma di espressione possibile.

Hai sempre pensato che la fotografia potesse essere il tuo metodo di comunicazione ideale?

In verità no. Ho iniziato a studiare musica quando avevo sei anni. La musica e le sue logiche, la sua matematica e la sua espressività hanno iniziato per prime a farsi largo nella mia concezione di comunicatività. Poi l’arte visiva è diventata il mio metodo di comunicazione preponderante, ma non escludo mai la composizione musicale, nel mio piccolo, e lo studio di altre arti visive e creative in generale. 

Secondo te che importanza ha la fotografia, soprattutto in questo periodo storico in cui tutto è manipolabile o generabile con l’Intelligenza Artificiale?

Solo dei bravi post-produttori possono rendere davvero credibile l’intelligenza artificiale attuale, agli occhi più attenti. Detto questo, il VERO momento ha una preziosità unica. Un momento storico esistito nello spazio-tempo e non solo su uno schermo, sotto forma di pixel. Questo dovrà pur valere qualcosa. 

Qual è il tema che porti alla mostra Naked Part of Us?

Le tre foto che presento in mostra fanno parte del libro fotografico “Psychosis”. Si tratta di una serie di autoritratti che dovrebbe rappresentare la degenerazione mentale, il distaccamento dalla realtà, tramite immagini oniriche e irreali. Il soggetto è sempre nudo, spoglio nel suo vivo dolore e senza difese.

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